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  • Immagine del redattoreGabriele Clima

Vibrazioni dell'anima, di Monica Tappa

Una chiacchierata in "punta di tastiera" con Gabriele Clima, Premio Andersen 2017 per "Il sole tra le dita" (San Paolo), che in questi giorni è stato ospite a Serramazzoni, Formigine e Modena.



Qual è stata la scintilla che ti ha portato ad avvicinarti a scrivere storie per ragazzi? Prima di tutto, credo, il fatto che ho cominciato a scrivere proprio da ragazzo (scrivo dalla quinta elementare, pensa un po’). E poi il fatto che ancora oggi io mi senta un po’ ‘ragazzo’, se con ragazzo si intende individuo in formazione. Non credo che cessi, in questo senso, la formazione, di qualunque individuo, che abbia quindici o cent’anni. Formazione vuol dire crescita, cammino, ampliamento delle conoscenze, aggiornamento delle  proprie mappe intellettuali ed emotive. C’è un’età in cui cessa tutto questo? Spero proprio di no. Ecco, scrivere per ragazzi significa questo, significa non dare per scontato, non navigare verso porti certi, non tentare di scampare a un fortunale; ma, al contrario, cercare la tempesta, esporsi di continuo, puntare dritti verso l’occhio del ciclone. La letteratura adulta lo fa solo in pochi casi, quella per ragazzi lo fa sempre, deve farlo, perché è la sua natura. Attenzione, parliamo della buona letteratura, quella cattiva non conduce nemmeno a porti certi. Che sia per adulti o per ragazzi.

C'è molta poesia, molta delicatezza nei tuoi romanzi, anche quando trattano i temi d'attualità crudi, come la guerra. C'è qualche autore del passato cui ti senti affine e che secondo te ti accompagna in questa costante "carezza" che hai nel raccontare? Parlando di autori del passato sono molto legato a Twain e a Dickens, penso siano stati loro, per primi, a farmi assaporare la leggerezza della narrazione. Sono però altrettanto legato a Céline e a Pasolini, alla loro scrittura sporca, ruvida, sanguigna. Ma credo che alla fine la distanza fra Twain e Pasolini sia solo apparente. Tutti i modi del narrare, io credo, sono convergenti, e la poesia, e perfino la delicatezza che vedi nella mia scrittura è solo il punto di intersezione di questi mondi divergenti. Credo che la poesia non nasca tanto dall’armonia, quanto dal contrasto, e per così dire è il punto di massima convergenza degli opposti. Un po’ come il bianco dell’arcobaleno.

Spesso nei tuoi romanzi si trovano personaggi e storie che sembrano "specchiate", complementari, incastri perfetti di una realtà che così diventa tridimensionale, a 360 gradi. E' difficile raccontare i fatti "per quello che sono". Quale il tuo approccio e l'elemento, la caratteristica, che nelle tue storie non manca mai, che tu ritieni "sine qua non" del tuo scrivere... Non si possono mai raccontare i fatti ‘per quelli che sono’. I fatti non sono mai in un solo modo, sono organismi complessi, convergenze di particelle minime, basta un cambio di luce o di prospettiva e cambiano completamente aspetto. Per questo cerco di usare più filtri nelle mie storie, più lenti con cui osservare la realtà. Continua a camminare è raccontato da due personaggi molto diversi l’uno dall’altro che parlano entrambi in prima persona. È un modo per cercare di vedere una stessa realtà – la guerra – da due prospettive differenti, in quel caso addirittura opposte. Allo stesso modo mi piace incrociare i ‘sentire’ dei miei personaggi. Mi sto accorgendo che i dialoghi ‘silenziosi’ stanno diventando quasi una peculiarità del mio narrare. Li ho usati in Continua a camminare, in Il sole fra le dita, li uso nel romanzo che uscirà a primavera prossima, dialoghi immaginari in cui persone diverse si interrogano e si rispondono, in un duetto che sembra un dialogo reale ma reale non è. Sono vibrazioni dell’anima, che si intrecciano e creano una tessitura strana, inusuale, che in qualche modo destabilizza e origina uno sguardo differente. Insomma, tutto questo per dire che la ‘conditio sine qua non’ delle mie storie è la realtà nella sua complessità. Il lettore non può accontentarsi (e neanch’io come scrittore) di un ‘pezzetto’ di realtà; deve averla tutta intera, nella sua multiforme integrità, anche quando si tratta di un piccolo lettore. Mi hanno detto che in L’estate che divenni partigiana ci sono tanti temi, tanti spunti, tante occasioni di approfondimento; in verità io ci ho messo una sola cosa, la realtà; ma ce l’ho messa tutta intera.

C'è qualcuno in particolare che vorresti ringraziare per essere diventato uno dei protagonisti dei tuoi romanzi, per averti dato la nota giusta, la caratteristica che avevi in mente ma non riuscivi a focalizzare? Non lo so, veramente. Mio figlio? Metto il punto di domanda perché credo di non averci mai pensato. Sì, mio figlio, forse, quella incomprensibile creatura fatta di rabbia e di scarpe da ginnastica che gira per la casa in cerca di cibo, sì, forse lui mi ha dato il la, inconsapevolmente, per cominciare a parlare di me, veramente di me. Mi ci ritrovo, in lui. Ritrovo quella rabbia, quel disagio, quel senso di impotenza, quella solitudine, quella disperazione perfino che provavo io quando avevo la sua età. E che a volte provo ancora adesso. Forse, davanti a questo specchio, ho cominciato a raccontarmi. Nel prossimo romanzo che uscirà tutto questo è ben visibile, accidenti se è visibile; mi sono messo a nudo, la rabbia, l’impotenza, l’abisso della mia perenne adolescenza. E ho scoperto cose che voi umani… Sì, forse tutto questo lo devo proprio a mio figlio. Grazie, dunque, Matti. Da lontano, magari, sennò mordi.

Da dove arriva l'ispirazione? Be’, ho appena parlato della realtà nella sua complessità. Ecco, da questo, arriva, da tutto quel che vedo, che sento, che vivo, che faccio, da voci che raggiungono il mio orecchio in strada, al supermercato, nel bar di una stazione. Il sole fra le dita è nato da un’avventura scolastica di Matteo quattordicenne; Continua a camminare da un fatto di cronaca letto su un quotidiano. Lo scrittore è una specie di radio ricevente, più che pensare capta, e in questo captare sta davvero il suo lavoro. Deve solo decidere a quale, delle frequenze che ha captato, dare corpo e testo per trasformarla in una storia. Come raccontare questa storia, poi, be’, quello è tutt’altra faccenda. E quello è l’occhio del ciclone.

Pubblicato su Zero14


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