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  • Immagine del redattoreGabriele Clima

Elena Elle Comana, «Black Boys»

24 febbraio 2020


Scrivere una recensione per Black boys è come tenere in mano lo slime pensando che lì stia, fermo, tutto compreso. Come no. Son talmente tanti i piani di lettura in questo racconto che ho pensato subito di non scriverne.

Poi ho pensato - genio - se non vuoi raccontare tutti i piani di lettura che vedi, raccontane due o tre, e lascia che gli altri ne raccontino altri. Non una sola recensione a presentare un libro, ma diverse recensioni, da ottiche diverse, che si possono unire nel percorso di lettura come una costellazione.

Ho quindi letto le recensioni postate sulla pagina Facebook dell’autore, altre ne arriveranno, mi son fatta un’idea di cosa già è stato scritto, cercherò di mettere a fuoco altri aspetti. Suggerisco di andare a leggere altre recensioni di questo libro, dove la complessità del tema delle bande neonaziste, degli squadroni punitivi, del disagio folle adolescenziale, della rabbia, del lutto e tant'altro, vengono nominati chiaramente presentando i temi di Black Boys, la necessità di questo libro al mondo. Scritto ciò, vado: Copertine esterne del libro: rosso, lucido, muro nero, scritta BLACK BOYS, black boys annessi. Questo è un tema.

Appena all’interno, in esergo, la dedica “A mia mamma (...)”, così come nell’ultima riga dei ringraziamenti. Prima e ultima pagina, prime e ultime righe. Chi tiene insieme cosa, cosa tiene insieme chi. Sguardi, parole, ringraziamenti, alla mamma, fragile e forte. Dediche meravigliose, non le trascrivo così che possiate andarle a leggere, lì dove son poste. L’eroe in questa storia è la mamma. Il padre è sottratto dal centro della scena, la madre è presenza, in ogni rigo della storia noi sappiamo dove sta: al centro del loro mondo, al tavolo della cucina ad aspettare. Vigile, attenta, silenziosa, presente, salvifica. E’ il nucleo. E’ colei che sa rompersi e rimettersi insieme, mostrare come ci si ripara, come tenere insieme i lembi della lotta. Rimane al suo posto costantemente rimodellata in presenza, un sì rinnovato ogni giorno. Un punto interno al mondo dove ancorarsi, verso cui orientarsi. Allontanarsi, avvicinarsi, trovare la strada. Un faro di luce pulsante nella tempesta.

Seconda pagina, seconda dedica, si scende in guerra con Louis-Ferdinand Céline e il suo Viaggio al termine della notte.

Colei che ha aiutato a costruire l’uomo, colui che ha aiutato a costruire lo scrittore.

“Nessuno ti dice come fare. Affrontare una perdita intendo, una persona che ti lascia, come superarla.”

Ecco l’incipit, di lutto si parla, atroce dolore, dal quale si genera la rabbia. Si torna al tema della rabbia potentemente narrato da Gabriele Clima nel precedente “La stanza del lupo”. Romanzo deflagrante che ci ha lasciati tutti senza fiato. In questo successivo la rabbia è motore della narrazione in un modo differente, è una rabbia che si muove diversamente. Se ne “La stanza del Lupo” deflagra da dentro a fuori, da sotto in su, è una forza primitiva e fuori controllo, rossa, incandescente, in “black boys” è una rabbia che affonda e fa sprofondare nel nero. Una rabbia liquida e fredda come piombo, dita d’acciaio, pianificata e agita al lume lucido della vendetta. Nella stanza del lupo il protagonista viene abitato dalla rabbia, in Black boys sceglie di abitarla come strumento di riscatto dal mondo.

Caspita. Che dire della trama. Leggendo sentivo una spaccatura nello stomaco che mi pareva di averci versato una moka da 6 di caffè nerissimo. Eccolo lì il nero di cui si parla, un dolore che spacca. Ho ascoltato Gabriele in una presentazione dal vivo pochi mesi fa. Lo guardavo in silenzio, insieme a ragazzi delle scuole superiori in una biblioteca cittadina. Quando all’interno di questo libro ha cominciato a dipanare il racconto, mi sentivo e vedevo di nuovo in una stanza insieme ad altri, quasi vedendo la pellicola in negativo. Stavo lì, a disagio, nel vederlo e sentire maneggiare certe frasi, parole, mettere le mani dentro uno schifo di modo e di mondo che faceva suo. Deglutivo e mi chiedevo, ma come fai accidenti, sei sicuro di mettere le tue mani a nudo dentro lì?

Se nel quotidiano Gabriele esercita e mostra la via dell’integrazione e del rispetto, della gentilezza, in questo scorcio di mondo imbocca l’esatto contrario, abitando da dentro un sottomondo negativo. E giù caffè nerissimo nello stomaco. Non si sottrae mai dal raccontare il buio del nucleo dell’uomo, non si sottrae dall’andare a toccare con mano - e farci toccare - il becero, il terrifico, la parabola del male. E ce la fa bere tutta, fino all’ultima tazzina. Però, come la madre del racconto, non si sottrae, non ci abbandona, sta lì accanto e mostra come ricucirci, incollare le parti, uscirne integri in un modo nuovo, feriti e riparati. Toccati. Luce dalle crepe, oro dalle ferite.

Mi ha permesso, questo viaggio, di arrivare a toccare un aspetto di Alex, il protagonista: il suo confortarsi nella piena solitudine, totale e autoresistente. Quella bolla in cui gli adolescenti si rifugiano e si sentono “forti”, contenuti in se stessi, da cui fanno così fatica ad uscire anche quando lo vorrebbero disperatamente.

A questi intrecci s’aggiunge un mondo intero, ampio e senza confini che avvolge tutto, come la carta velina un album di ricordi. Tutto è presenza, e assenza, memoria che valica le pieghe del tempo e degli spazi. Mondi che comunicano uno con l’altro, e tracce, come piedi che corrono muovendo echi che risuonano nei corridoi del tempo. Un altro modo delle cose.

Ma questa è un’altra storia e si racconterà un’altra volta.

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