gabriele clima
PALOMBARA
Massimiliano Savelli Palombara, marchese di Pietraforte
– Nessuno lo sa – disse la donna. – Ma il marchese, appassionato di alchimia, lo lasciò libero, autorizzandolo a proseguire le ricerche. Anzi, lo ospitò alla villa con- sentendogli perfino l’utilizzo del laboratorio. Ma, ahimè, la mattina seguente...
(Alibel, La Malastriga, pag. 215)
Massimiliano Savelli Palombara, marchese di Pietraforte (1614-1685), alchimista e poeta romano. La sua grande passione per l’alchimia, chiamata nella sua epoca semplicemente l’Arte (ovvero l’arte di far l’oro), lo spinse a frequentare vari eruditi del suo tempo, come il gesuita Atanasio Kircher, l’astronomo Gian Domenico Cassini, il medico Alfonso Borelli e fece parte della corte di Cristina di Svezia, alla cui maestà raccomandò la moglie e i figli al momento della sua morte. Affrontò gli argomenti esoterici con l’animo del poeta e del letterato: scrisse fra l’altro le Rime Ermetiche e La Bugia (il candeliere), un trattatello inteso a illuminare la strada di chi voleva avventurarsi nell’ermetismo. Di quest’ultima opera esistono due versioni, una anonima (ma sicuramente di sua mano) e l’altra firmata. Il secondo scritto è un riadattamento del primo in cui scompaiono tutte quelle affermazioni che nella Roma della Controriforma avrebbero potuto essere ritenute eretiche, come l’aderenza alle idee dei Rosacroce, una setta esoterica riformista e antipapale che aveva un certo seguito nel Nord Europa.
Racconta nei suoi scritti l’erudito abate Francesco Girolamo Cancellieri che un giorno, mentre Massimiliano Palombara stava nella sua villa, dove teneva il suo laboratorio alchemico, dall’ingresso su via Merulana entrò uno strano “pellegrino” che, senza dir nulla, si mise a cercare qualcosa nel terreno. Essendo stato notato da uno dei servi del marchese, che prontamente corse ad avvisare il padrone, fu subito invitato alla sua presenza per spiegare che cosa stesse facendo. Il pellegrino disse che cercava l’erba, della quale teneva in mano un mazzetto, perché la riteneva indispensabile per far l’oro; si offrì poi di rivelargli la difficile, ma non impossibile, arte della trasmutazione. Incuriosito, il marchese gli mise a disposizione il suo laboratorio.
Possiamo immaginare con quale curiosità e aspettativa egli assistette all’esperimento. L’erba, dopo essere stata abbrustolita e ridotta in polvere, fu gettata nel crogiuolo pieno di un liquido particolare. La mistura venne lasciata a riposare sul fuoco acceso, che, secondo la prescrizione, doveva spegnersi da solo a poco a poco. Per evitare che qualcuno potesse turbare lo svolgersi della delicata operazione, il pellegrino pretese di chiudere a chiave la stanza e di dormire in un locale attiguo per meglio controllare il lavoro. Promise infine che il giorno dopo avrebbe svelato il suo segreto. Il marchese si lasciò convincere e lo lasciò fare, ma l’indomani il pellegrino era scomparso. Nel laboratorio si trovò il crogiuolo rovesciato sul pavimento vicino a una sostanza rappresa, che risultò essere oro purissimo, e sul tavolino si rinvenne una carta che recava alcune scritte enigmatiche.
La leggenda vuole che il marchese, dopo aver tentato inutilmente di interpretare quelle scritte, le fece incidere in vari posti della sua villa, fra cui sulla famosa porta alchemica (vedi nella sezione I luoghi della storia), nella speranza che qualcuno vedendole potesse riuscire nell’impresa. La maggior parte di esse sarebbero andate perdute; sopravvivono solo quelle della porta di piazza Vittorio, che, pur se non hanno ancora consentito di fabbricare l’oro, come vorrebbe la leggenda, possono tuttavia aiutare a fare un po’ di luce sul mistero.
Anche se il Cancellieri non dà alcuna notizia biografica del “pellegrino”, questi potrebbe essere identificato con Francesco Giuseppe Borri (vedi nella sezione Personaggi storici), un alchimista e guaritore che si era comportato nello stesso modo con la regina Cristina di Svezia, facendole credere di aver compiuto la trasmutazione del piombo in oro.