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MASTRO TITTA

Mastro Titta, il boia di Roma

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«Ad ogni colpo della sua lama, la piazza tremava, gremita e vociante. Titta godeva d’oscura fama presso ogni ladro, predone e brigante.»
(Alibel, La Malastriga, pag. 172)

Mastro Titta, soprannome di Giovanni Battista Bugatti, nacque a Senigallia il 6 marzo 1779 e morì a Roma il 18 giugno 1869. Ufficialmente il suo mestiere era quello di verniciatore di ombrelli, ma in realtà era il boia dello Stato Pontificio, il “maestro di giustizie” (da cui il termine Mastro, mentre Titta è un diminutivo del suo nome). Noto anche come “er Boja de Roma”, iniziò la sua carriera di incaricato delle esecuzioni delle condanne a morte il 22 marzo 1796 e fino al 17 agosto 1864 (ovvero fin quando andò in pensione, con un vitalizio mensile di 30 scudi, sostituito dal suo aiutante Vincenzo Balducci) raggiunse la quota di 514 nomi di giustiziati, anche se sul taccuino che Bugatti trascrisse meticolosamente ne furono annotati 516: dal conto vengono sottratti due condannati, uno perché fucilato e l’altro perché impiccato e squartato dall’aiutante.

Da questo taccuino, nel 1891, l’editore Edoardo Perino prese spunto per pubblicare, a dispense, le memorie del carnefice in chiave romanzata dal titolo “Mastro Titta, il boia di Roma: Memorie di un carnefice scritte da lui stesso”: si ritiene che lo scrittore fosse Ernesto Mezzabotta, ma ufficialmente l’autore restò sconosciuto. Nelle province dello Stato Pontificio, ma soprattutto a Roma, il termine Mastro Titta divenne sinonimo di boia, tanto per indicare i molti che lo precedettero quanto i pochi che lo seguirono.

Mastro Titta non era certamente amato dai suoi concittadini, per cui viveva in una sorta di domicilio forzato all’interno della cinta vaticana, sulla riva destra del Tevere, al numero 2 di vicolo del Campanile, anzi gli era addirittura vietato, per prudenza, recarsi nel centro della città, dall’altro lato del Tevere (donde il proverbio romano “Boia nun passa ponte“, a significare “ciascuno se ne stia al proprio posto“).



Siccome a Roma le esecuzioni capitali pubbliche decretate dal Papa Re, soprattutto quelle “esemplari” per il popolo, non avvenivano nel borgo papalino, ma sull’altra sponda del Tevere (piazza del Popolo, piazza di Ponte, Campo de' Fiori, via dei Cerchi), in eccezione al divieto il Bugatti doveva attraversare ponte (ovvero ponte S.Angelo) per andare a prestare i suoi servigi: ciò diede origine all’altro modo di dire romano “Mastro Titta passa ponte“, a significare che quel giorno era in programma l’esecuzione di una sentenza capitale. Prima di ogni esecuzione Mastro Titta si confessava e si comunicava, poi indossava il mantello rosso e si recava a compiere l’opera; quando mazzolava, impiccava, squartava o decapitava, il boia operava con uguale abilità e spesso andava a svolgere la sua attività anche nelle province.


Pur professando uno dei mestieri più orribili, Mastro Titta faceva il suo dovere con distacco e professionalità, tanto che a volte era uso offrire ai condannati un’ultima presa di tabacco o un sorso di vino, quasi a volerli rassicurare sulla sua professionalità. Le tecniche comprendevano l’impiccagione, il mazzolamento (cioè l’uccisione con un preciso colpo di mazza), la decapitazione a mezzo ghigliottina (prima della Rivoluzione Francese si usava un semplice colpo d’ascia) e persino lo squartamento; quest’ultima era una pena aggiuntiva, comminata ai rei di crimini particolarmente efferati, come l’omicidio di un prelato, e veniva inflitta dopo l’uccisione, al corpo ormai privo di vita, con successiva affissione dei quarti smembrati ai quattro angoli del patibolo.

L’unico ricordo rimasto di Mastro Titta, oltre alla fama leggendaria, è il mantello scarlatto, che il boia indossava durante le esecuzioni, oggi in mostra al Museo Criminologico. Il Museo custodisce anche il coltello del carnefice di Roma, con il manico di bronzo, a tortiglione, con sovrapposta una testa di leone, con la quale si eseguiva la condanna alla mutilazione, riservata solitamente agli indigenti che non avevano i mezzi per pagare forti multe, che poteva prevedere l’asportazione di occhi, il taglio di orecchie e nasi o, per i ladri colti in fragranza, il taglio della mano sinistra la prima volta e, in caso di recidiva, della mano destra.

fonte: www.romasegreta.it

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